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				Pino Romanò: pittura quale ancestrale architettura   
				
				 Scrivere 
				di un artista frequentato amicalmente da molto tempo, ripercorrendo 
				l’anamnesi degli ultimi anni, come in una rivisitazione, alla scoperta 
				di quella filigrana che circola nelle singole fasi della sua creativa 
				attività, oltre che un’opera di verifica è anche un appassionante 
				esame di coscienza: perché la verità delle esperienze fatte via 
				via tra critico e artista non si assomma meccanicamente, dando luogo 
				a un’altra verità con la quale confrontarsi, se non opposta alla 
				prima, certamente più ricca e complessa. 
				Parlo di Pino Romanò, il pittore nato nel 
				1934 a Scilla, in Calabria, che da molto tempo vive a Roma, con 
				lo studio incastonato alle pendici di Tusculum, a due passi 
				dalle antiche vestigia, dove ama passeggiare tra il teatro, l’anfiteatro, 
				il cardo e il decumano della città laziale. 
				Certo l’artista portava con sé il suo destino, 
				non soltanto come capacità e cultura, ben prima che io lo conoscessi 
				e ben prima che si affermasse con mostre personali qualificate nell’ordine 
				disarticolato degli odierni valori di avanguardia. E chi poté frequentarlo 
				intorno agli anni Sessanta ne avvertì subito la vitalità di pittore 
				nato. Il suo gusto per i maestri dell’impressionismo e dell’espressionismo 
				era assai aperto, ad agitare quei modi era un talento forte, temprato 
				dall’esperienza giovanile: quello splendore di pennellate, quel 
				cercare nelle sagome delle case dei pescatori, quei fantasiosi colori 
				del cielo, del mare, quella letizia che è nell’esistente stesso, 
				perpetua lode alla sua terra d’origine, fanno inizialmente dell’artista 
				un missionario della pittura e di Scilla, nel linguaggio di noi 
				contemporanei. 
				E se per la pittura gli furono amici Mario 
				Mafai e Fausto Pirandello, per la tecnica fu di grande consiglio 
				Manfredi Nicoletti e Salvatore Salvemini, mentre per quanto concerne 
				"le tele che formano colore", il debito è con Orfeo Tamburi. 
				La lunga rincorsa architetturale e di "muratore" 
				della pittura percorsa da Romanò, affiancata da una viva curiosità 
				per le manifestazioni d’arte di punta, costituisce quindi una garanzia 
				per il suo domani, una ragione di più perché l’artista non si senta 
				obbligato a "saltare il fosso", come accadde a tanti, per esaurimento 
				di contenuti figurativi, in omaggio a contenuti "astratti", ma continui 
				la sua obbedienza iconografica viva e stimolante, ricca di nuovi 
				fermenti formali. 
				In verità Romanò fa suoi contenuti precisi,
				in primis il suo rapporto con le città, le stratificazioni 
				edilizie ed urbane, il dipingere come proiezione dell’universalità, 
				la cui misura perfetta, antica e operante è l’architettura, con 
				così fieri e naturali sentimenti, da non poterli trasferire in pittura 
				astratta. Il suo realismo è ragione, evidenza, soluzione di continuità 
				negli spazi ottici. Si tratta di una pittura che in qualche modo 
				deve continuare a rispecchiare la vita. Come tutte le formule, anche 
				questa, non sta dentro schemi o ipotesi così semplici; l’artista 
				ha condensato nei suoi quadri architetture reali, ma viste con occhi 
				incantati. Talora le fabbriche sono solo abbozzate, lavorate come 
				elementi visti in rilievo, per cui queste sequenze poggiano su
				habitat, come se casa su casa, tetto su tetto, ponte su ponte, 
				recitassero in un teatro. Edifici misteriosi che si stagliano su 
				altri, costruendo ombre e piani prospettici, volumi e vuoti di piazze 
				e cortili. Il diverso rapporto tra architettura e urbanistica, l’artista 
				l’esprime privilegiando l’atmosfera, con il vivido contrasto delle 
				gamme. Ma non si tratta di un’operazione automatizzata del tipo 
				di quella che attuarono gli "astratto-concreti" negli anni Cinquanta, 
				di portare, sic et simpliciter, in uno schema mentale di 
				avanguardia le notazioni sensibili "impressionistiche". 
				L’operazione di Romanò è il recupero dell’architettura 
				come segni riconoscibili nell’immagine globale della città, è l’incontro-scontro 
				fra architettura pura e messaggio. 
				Prospettive aperte sulle città 
				Ma quel suo ricorrere ad urbanistiche prive 
				di figure umane, come a istituzionali scene che comunque vivono 
				un tempo privo di tempo, più che nel "tempo della memoria", produce 
				un nuovo umanesimo che infonde una malinconia dello spirito, verso 
				il perduto mondo classico. 
				Proprio l’astratto colorismo manieristico 
				sembra bagnare di luce immateriale gli spazi pieni di forma misterica. 
				I colori terrosi, il tatticismo delle superfici scabre, la perdita 
				dei segni di contorno, e tuttavia la presenza di una globale armonia, 
				la scomposizione della scena in più parti frastagliate, movimentate 
				da un contrappunto di luci, penombre e ombre, fanno parte dell’abile 
				manierismo dell’artista. 
				E’ una immagine illusiva quella che Romanò 
				inventa, ripropone, modifica nelle impostazioni reali, e tuttavia 
				fragile, volumetricamente svuotata per ampi squarci di affreschi 
				staccati o per l’intonaco cadente dal muro, sempre più caratterizzato 
				da un tonalismo di superficie che talora scivolano in una fuga spaziale. 
				Nelle opere romane il contenuto poetico e lirico si fonde in tutto 
				l’impianto plastico, attuato con lucidità sino al "non finito" delle 
				fabbriche. 
				Poter vedere l’artista al lavoro è sempre 
				una fonte inesauribile di notizie, curiosità, sorprese. Nel caso 
				di Pino Romanò diventa ancora più importante perché il suo lavoro 
				di preparazione della superficie pittorica, la tela, fa parte assolutamente 
				integrante di quel che sarà l’opera finale. Infatti, egli incomincia 
				a lavorare solo su superficie pittoriche, in prevalenza tele di 
				olona grezze, da lui appositamente preparate con un procedimento 
				quasi alchemico in cui gli ingredienti necessari, gesso e colla 
				in proporzioni rigorosamente preventivate, vengono sciolte a caldo 
				e ancora bollenti vengono stesi con una pennellessa sulla tela già 
				montata in apposito telaio. La superficie così ottenuta, una volta 
				asciugata, viene scartavetrata e quindi trattata con olio di lino 
				crudo. Ne risulta una superficie che assomiglia ad un intonaco appena 
				terminato e su questa egli incomincerà a disegnare ed a dipingere 
				o, frequentemente, a dipingere senza disegnare. 
				Ed anche qui le sorprese non mancano, perché 
				Pino Romanò non usa pennelli ma spatole con le quali distende in 
				colori sia in linee sottili che in masse, raschiando il pigmento 
				colorato sulla tela con gli effetti e le sensazioni che poi ritroviamo 
				nelle sue opere finite. 
				Si tratta quindi di una tecnica assolutamente 
				personale che l’artista ha messo a punto nei tanti anni di attività 
				e che ha definitivamente scelto perché pienamente rispondente alle 
				sue esigenze espressive. 
				Viene ora da chiedersi quanti altri artisti 
				nello stato attuale dell’arte pittorica possano vantare una tale 
				attenzione alla tradizione, considerando che è in vigore il massimo 
				dello sperimentalismo, spesso in verità fine a se stesso. E ciò 
				in definitiva è sinonimo di serietà nell’affrontare i problemi della 
				rappresentazione a mezzo di immagini pittoriche come appunto fa 
				Romanò.   
				Ri-composizione architettonica 
				Il concetto di pittura, come anche altri concetti 
				usati nelle arti figurative, si è recentemente esteso, paradossalmente, 
				alla figura umana (ritratto) e al paesaggio (anche urbano). 
				Nel corso della naturale evoluzione di Pino 
				Romanò, la pur valida associazione dei primi lavori, si evolse a 
				vantaggio di uno stereometrico carattere che andava sempre più delineandosi, 
				con un modo libero di plasmare, come se l’artista avesse voluto 
				chiarire a se stesso (più che alla critica) la provenienza dell’ispirazione 
				e del magma eruttivo. La nitidezza geometrica dei volumi delle case, 
				delle chiese, dei ponti, finì per imporsi come risolutivo principio. 
				Così facendo Romanò sostiene una convinzione 
				classica, riportata da Vitruvio nel De Architectura, cioè 
				che le proporzioni e l’armonia sono insite nella natura e che per 
				questo motivo esse rappresentano il principio ordinatore del mondo 
				e, conseguentemente, della buona architettura. Ricerca 
				del colore, del suo infinito florilegio 
				Nella misura in cui Pino Romanò trova un rapporto 
				col passato, un rapporto diverso con lo spazio, e lo trova una volta 
				per sempre, quanto a contestazione di una chiesa barocca, di un 
				ponte classico, di uno spazio rinascimentale, logico e geometrico. 
				Su questo spazio, dopo l’incanto cromatico senza tempo e di tutti 
				i tempi, egli trasferisce le architettura, che sembra quasi che 
				lo attraggono, con comunicazione funzionale in senso stretto, diventando 
				ipotesi, vis di altri messaggi: antichi caratteri fanno blocchi 
				ed architetture vicino o sopra scomparti volumetrici, elementarità 
				di volumi e segni aulici si sovrappongono, invenzioni del gesto 
				si intrecciano, il fiume trova compagnia negli argini e nei ponti, 
				l’attualità si avvicina alla storia, gli smaglianti colori preparano 
				le future sintesi plastiche che non appariranno come un sacrificio 
				della fantasia a vantaggio dell’evidenza, ma come un concentrato 
				della vissuta dialettica pittura-architettura, col vantaggio di 
				seminare nella sua spirituale ragione una luce universale. 
				La ricerca di Romanò si fonda sull’interpretazione 
				delle realtà delle cose, rivisitate secondo uno schema mentale elaborato 
				per esprimere sensazioni e allusioni sul filo di una sensibilità 
				pittorica imbevuta di luce che media la tensione emotiva con la 
				razionalità di un ordine strutturale. 
				E l’artista appare nella sua reale capacità 
				di evocare fantasmi dal mondo antico e di investirli via via di 
				personalità diversa, ora appellandosi alle suggestive visioni paesaggistiche 
				che trovano un innesto di grande valore in quello che costituisce 
				il nucleo fondamentale di questa pittura: la luce. Pino dipinge 
				per e dentro un tale elemento; che non è un elemento naturale poiché 
				è una invenzione. Si tratta di una luce liquida che scorre in flussi 
				ascensionali e rifluisce in quegli spazi reali o illusori, ad illuminare 
				la complessità delle immagini, creando al suo passaggio, punti di 
				vista diversi, nuovi centri focali. In questo gioco di interventi, 
				Romanò coglie le forme alle quali riesce a conferire l’illusione 
				della plasticità. 
				E poi c’è l’assenza del segno, e la presenza 
				forte del colore. La sempre marcata plasticità trae alimento dal 
				colore, essa ritrova l’essenza di quella passione perfino struggente 
				che era nel pensiero ispiratore e si realizza per calde atmosfere, 
				evanescenti, invocate a testimoniare che si tratta di un sogno fatto 
				per rivivere il ricordo di architetture classiche, vissute, antiche, 
				spesso liberate nelle cromie, come a ribadire un amore incorrotto 
				per il passato.  
				Roberto Luciani | 
				
				 
				
				
				S. Giovanni dei Fiorentini e il Tevere, 2002 olio su tela 60x80 |