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Mille e una notte

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STORIA DI TORMENTA

— Sappiate dunque prima di tutto, ch’io mi chiamo Tormenta, nome che mi fu dato al momento della mia nascita, perché fu giudicato che il mio aspetto prometteva assai male. Ciò non vi deve essere ignoto, non essendovi niuno a Bagdad il quale ignori che il califfo Haroun-al-Rascid, mio e vostro sovrano e signore, ha una favorita che si chiama così.

Fui condotta nel suo palagio fin da’ miei più teneri anni, e vi sono stata allevata colle cure che sono solite avere persone del mio sesso destinate a restarvi. Io non riuscii per nulla male. Comprenderete bene da ciò, che Zobeida moglie del Califfo non ha potuto vedere la mia felicità, senza esserne gelosa.

Fino ad ora mi guarentii dalle sue insidie: ma finalmente soccombetti all’ultimo sforzo della sua gelosia, e senza voi sarei adesso nell’agonia d’una inevitabile morte. Indubbiamente ella ha corrotta una delle mie schiave, che mi presentò ieri sera nella mia limonata una droga che cagiona un assopimento tanto grande, che durante sette od otto ore nulla è capace a dissiparlo.

Zobeida, per eseguire il suo malvagio disegno, ha profittato dell’assenza del Califfo. Io non so come farà per nascondere al Califfo questa sua malvagia azione: ma da ciò vedete quanto mi stia a cuore che mi teniate il segreto, andandovi della mia vita, non essendo così io sicura in casa vostra, finché il Califfo starà fuori di Bagdad.

Appena la bella favorita di Haroun-al-Rascid ebbe cessato di parlare, Ganem prese la parola e disse:

— Signora, io vi rendo mille grazie di avermi dato lo schiarimento che mi son preso la libertà di chiedervi e vi supplico di credere che qui siete sicura. I sentimenti che m’avete ispirati vi sieno mallevadori della mia discrezione.

— Vedo bene — diss’ella — che questo discorso vi cagiona molta pena; però lasciamo, e parliamo dell’obbligazione infinita che vi ho. Non posso sufficientemente esprimervi la mia gioia, quando penso che senza il vostro soccorso sarei priva della luce del giorno.

Dopo pranzo Ganem disse a Tormenta:

— Signora, sarete forse desiderosa di riposarvi; però io vi lascio, e quando avrete tutto il vostro bisognevole, mi vedrete pronto ai vostri ordini.

Ciò detto, uscì e andò a comprare due schiave.

Comprò anche due rotoli, l’uno di biancheria fina, e l’altro di tutto ciò che poteva comporre una telette degna della favorita del Califfo.

Condusse in casa sua le due schiave, e presentatele a Tormenta le disse:

— Signora, una persona come voi ha almeno bisogno due donne per servirla.

Tormenta ammirò l’attenzione di Ganem e gli rispose:

— Signore, vedo bene che non siete un uomo di far le cose a mezzo.

Quando le due schiave si furono ritirate in una camera ove il giovane mercante le mandò egli si assise sul sofà ove stava Tormenta, ma a qualche distanza da lei per dimostrarle maggior rispetto.

— Signore... — disse Tormenta.

— Ah! signora — interruppe Ganem — trattatemi come vostro schiavo, perché tale io sono e non cesserò mai d’esserlo.

— No, no — interruppe Tormenta a sua volta — mi guarderei bene di trattare così un uomo a cui debbo la vita. Sono troppo penetrata della vostra condotta rispettosa per abusarne, e vi confesso che non vedo con occhio indifferente le cure che voi vi prendete. Non vi posso dir altro.

Si posero ambedue a tavola.

La cena durò lungo tempo, e la notte era già molto avanzata senza che essi pensassero a ritirarsi.

Ganem ciò nonostante si ritirò in un altro appartamento, lasciando Tormenta in quello ove stava, e nel quale, le due schiave che aveva comprate, entrarono per servirla.

Vissero così ambedue per più giorni.

Il giovane mercante non usciva che per affari di estrema importanza, ma lo faceva quando Tormenta riposava, non potendo risolversi a perdere un solo dei momenti che gli era permesso di passare al di lei fianco.

Ciononostante, quantunque ambedue si amassero di uguale affetto, la considerazione del Califfo ebbe il potere di ritenerli nei limiti che questa esigeva da essi: il che rendeva la loro passione ancora più viva.

Mentre Tormenta, strappata per così dire dalle mani della morte, passava sì piacevolmente il tempo in casa di Ganem, Zobeida non era senza impaccio al palazzo di Haroun-al-Rascid.

— Il mio sposo, — diceva essa — ama Tormenta più che non abbia amato altra favorita. Che cosa risponderò io al suo ritorno, quando mi domanderà notizie di lei?

E le sorsero in mente vaghe immaginazioni, ma senza che nessuna si potesse adattare allo scopo.

Essa trovava mille difficoltà nell’eseguimento dei meditati propositi, quando si ricordò di aver presso di lei una vecchia signora che l’aveva allevata nella sua infanzia.

Fattala chiamare all’alba del giorno seguente dopo averle confidato il segreto, le disse:

— Mia cara, voi mi avete sempre aiutata coi vostri buoni consigli: ma egli è specialmente in questa occasione ch’essi mi abbisognano, e vi prego perciò di suggerirmi un mezzo per contentare il Califfo.

— Cara padrona — rispose la vecchia signora — per far ciò, io son d’avviso che facciate tagliare un pezzo di legno a forma di cadavere.

Noi l’invilupperemo in vecchie biancherie, e dopo averlo chiuso in una bara, lo faremo interrare in qualche parte del palazzo: poscia, senza perder tempo, farete innalzare un mausoleo di marmo a cupola, sul luogo della sepoltura, ed un tumulo che coprirete con un drappo nero, circondato da grandi candelabri con grossi ceri accesi.

Quando il Califfo sarà di ritorno, e vedrà tutta la sua Corte in lutto e voi ancora, non mancherà di chiedervene la ragione. Allora potrete farvi un merito presso di lui, dicendo che a sua considerazione avete voluto rendere gli ultimi onori a Tormenta, che una subitanea morte ha rapita.

Il pezzo di legno fu preparato con tutta la sollecitudine che Zobeida poteva desiderare: e portato poscia dalla stessa vecchia signora nella camera di Tormenta, ivi lo accomodò come un morto e lo pose in una bara.

Indi Mesrour, capo degli eunuchi, rimasto egli pure ingannato, fece levar di là la bara e il fantoccio, e con cerimonie che usavano nel luogo e accompagnato dalle lacrime che versavano le donne della favorita, lo fece seppellire.

Immantinente la morte di Tormenta fu tosto creduta in tutta la città. Ganem fu degli ultimi a saperlo, perché come fu già detto non usciva quasi mai. Nonpertanto avendolo saputo un giorno, disse alla bella favorita del Califfo:

— Signora, vi si crede morta in Bagdad, e non dubito che la stessa Zobeida non ne sia persuasa. Io benedico il cielo di esser la cagione ed il felice testimonio che voi vivete. E piacesse al cielo che profittando di questa falsa voce voleste legare la vostra sorte alla mia e venire con me lungi di qui a regnar sul mio cuore.

L’amabile Tormenta, quantunque fosse sensibile alle tenere espressioni di Ganem, faceva forza a sé medesima per non rispondervi, ed invertendo il discorso:

— Signore, — gli disse — non possiamo impedire a Zobeida di trionfare, e son poco sorpresa dell’artificio onde si serve per celare il suo delitto: ma lasciamola fare, perché mi lusingo che questo trionfo sarà ben presto seguito dal dolore.

Il Califfo ritornerà e noi troveremo il mezzo d’informarlo segretamente di quanto è avvenuto.

A capo di tre mesi il Califfo ritornò a Bagdad.

Impaziente di veder Tormenta e di farle omaggio dei suoi nuovi allori, entrò nel suo palazzo, ma restò fortemente meravigliato nel vedere i suoi ufficiali che vi aveva lasciati, tutti vestiti a lutto.

Ei chiese immantinente la cagione di quel lutto col dolore dipinto sul volto.

— Commendatore dei credenti — disse Zobeida — io l’ho preso per Tormenta vostra schiava, che è morta tanto subitaneamente che non fu possibile d’apportar alcun rimedio al suo male.

Ho avuto cura io medesima dei funerali, e non ho nulla risparmiato per renderli superbi. Ho fatto edificare un mausoleo sul luogo della sua sepoltura, ove vi condurrò, se lo desiderate.

Il Califfo non volle che Zobeida si prendesse questa pena, e si contentò di farvisi condurre da Mesrour.

Quando vide il ricco mausoleo coperto di un drappo nero, e coi ceri accesi tutto all’intorno, si meravigliò che Zobeida avesse fatto i funerali della sua rivale con tanta pompa: e siccome era naturalmente sospettoso, diffidò della generosità della sua consorte, e pensò che la sua amante potesse non esser morta.

Per schiarirsi da sé medesimo della verità, questo principe comandò che si levasse il mausoleo; fece aprir la fossa e la bara in sua presenza, ma appena ebbe veduto il lenzuolo che avviluppava il pezzo di legno, non osò guardar oltre.

Quel religioso Califfo temé d’offendere la religione, permettendo che si toccasse il corpo della defunta: e questo scrupoloso timore lo vinse sull’amore e sulla curiosità. Non dubitando della morte di Tormenta, fece richiudere la bara, e ricolmata la fossa, rimise il mausoleo allo stato di prima.

Quindi restò nel mausoleo ove inaffiò delle sue lagrime la terra che copriva il preteso cadavere della sua favorita. Per trenta giorni durò il suo lutto, le preghiere e le veglie sulla tomba di Tormenta.

Haroun-al-Rascid, stanco finalmente, andò a riposare nel suo appartamento, e s’addormentò sopra un sofà fra due dame del suo palagio.

Quella che stava al capezzale che si chiamava Alba del Giorno, vedendo addormentato il Califfo, disse sommessamente all’altra dama:

— Stella del Mattino — perché quella così si chiamava — abbiamo buone nuove. Il Commendatore dei credenti, nostro signore e padrone, avrà grande gioia al suo destarsi quando saprà ciò che ho a dirgli. Tormenta non è morta, ma sta in perfetta salute.

— Oh cielo! — esclamò subito Stella del Mattino tutta trasportata dalla gioia — sarebb’egli possibile che la bella, la leggiadra, l’incomparabile Tormenta fosse ancora al mondo?

Stella del Mattino pronunciò queste parole con tanta vivacità e con un tono così alto che il Califfo si destò, e chiese perché si fosse interrotto il suo sonno.

— Ah! signore — rispose Stella del Mattino — perdonatemi questa indiscrezione, ma io non ho potuto udir tranquillamente che Tormenta vive ancora, senza sentirne un trasporto che non ho potuto frenare.

— Ebbene, che n’è dunque divenuto? — disse il Califfo.

— Commendatore dei credenti — rispose Alba del Giorno — io ho ricevuto stasera da un uomo sconosciuto un biglietto senza sottoscrizione, ma scritto dalla propria mano di Tormenta, che mi dice la triste avventura, e mi ordina d’istruirvene. Io aspettava per adempiere la mia commissione che aveste preso alcuni momenti di riposo, giudicando che dovevate averne bisogno dopo la fatica, e...

— Datemi, datemi quel biglietto — interruppe con precipitazione il Califfo.

Alba del Giorno gli presentò immantinente il biglietto, ch’egli aprì con viva impazienza. Tormenta vi faceva un minuto ragguaglio di quanto le era avvenuto, ma si stendeva un po’ troppo sulle cure che Ganem aveva di lei. Il Califfo, naturalmente geloso, invece di essere sdegnato della perfidia di Zobeida, non fu sensibile che all’infedeltà che s’immaginò avergli commessa Tormenta.

Si alzò ed entrò in una gran sala, ove era solito di farsi vedere e di dar udienza a’ signori della sua Corte.

Il visir Giafar comparì e prostrossi innanzi al suo signore.

— Giafar, la tua presenza è necessaria per l’esecuzione di un ordine importante di cui vado ad incaricarti. Prendi teco quattrocento uomini della mia guardia, ed informati prima di tutto ove abita un mercante di Damasco chiamato Ganem. figliuolo di Abou Aibou; quando l’avrai saputo, va’ in sua casa e falla demolire fino alle fondamenta ma impadronisciti prima della persona di Ganem, e conducimilo qui con Tormenta mia schiava, che sta in casa sua da quattro mesi.

Il gran Visir, dopo aver ricevuto quest’ordine, pose una mano sulla destra per mostrargli che voleva perderla piuttosto che disobbedirlo, e poscia uscì.

Tormenta e Ganem terminavano allora di pranzare.

La prima era seduta vicino ad una finestra che sporgeva sulla strada: e, per il rumore inteso, guardò dalla gelosia, e vide il gran Visir che si avvicinava con tutto il suo seguito; argomentò quindi che si andava a prender tanto lei quanto Ganem.

Ella comprese che il suo biglietto era stato ricevuto: ma non s’aspettava una simile risposta, ed aveva sperato che il Califfo avesse preso la cosa in altro aspetto.

— Ah! Ganem, noi siamo perduti, sono venuti a cercarci ambedue!

Egli guardò dalla gelosia e fu compreso dallo spavento quando scorse le guardie del Califfo colla sciabola nuda, ed il gran Visir col Giudice di polizia alla loro testa.

A questo spettacolo egli restò immobile e non ebbe la forza di pronunciare una parola.

— Ganem — soggiunse la favorita — non vi è tempo da perdere, se mi amate, prendete subito l’abito di un vostro schiavo, e stropicciatevi il viso e le braccia di fuliggine, mettetevi poscia qualcuno di questi piatti sulla testa, ed in tal modo vi prenderanno per un giovine del trattore e vi lasceranno passare. Se vi si domanda ove si trova il padrone, rispondete senza esitare ch’esso è in casa.

L’afflizione del giovane era tale che non sapeva a che risolversi, e si sarebbe senza dubbio lasciato sorprendere, se Tormenta non l’avesse affrettato a travestirsi. Arresosi finalmente alle sue istanze, prese un abito di schiavo, e s’imbrattò di fuligine, ed era tempo, perché già si picchiava alla porta, e tutto quello che poterono fare fu di abbracciarsi teneramente. Erano ambedue sì compresi da fiero dolore, che fu loro impossibile pronunziare una sola parola.

Tale fu il loro addio.

Ganem uscì finalmente con alcuni piatti sulla testa, e fu preso effettivamente per il giovane del trattore, sicché non fu per nulla fermato.

Mentre che sfuggiva in tal modo alla persecuzione del gran visir Giafar, questo ministro entrò nella camera ove stava Tormenta seduta sopra un sofà e dove era un’abbondante quantità di forzieri riempiti delle mercanzie di Ganem e del denaro che ne aveva tratto.

Appena Tormenta vide entrare il gran Visir si prostrò colla faccia contro terra, restando in quello stato come se fosse disposta a ricever la morte.

— Signore — diss’ella — son pronta a ricevere il decreto che il Commendatore dei credenti ha pronunciato contro di me. Voi non avete che ad annunciarmelo.

— Signora — le rispose Giafar prostrandosi eziandio fino a che si fosse rialzata — al cielo non piaccia che alcuno osi mettere su voi una mano profana. Io non ho disegno di farvi il minimo dispiacere. Non ho altro ordine che di supplicarvi di seguirmi al palagio, e di condurvi il mercante che abita in questa casa.

— Signore — soggiunse la favorita alzandosi — partiamo, io son pronta a seguirvi! Il giovane mercante poi, a cui debbo la vita, non è punto qui. È quasi un mese, che è andato a Damasco, ove i suoi affari lo hanno chiamato, e fino al suo ritorno m’ha lasciato in custodia questi forzieri che vedete. Io vi supplico di voler permettere di farli portare al palagio e di dar ordine che sien posti in luogo sicuro affinché io tenga la promessa che gli ho fatta di averne tutta la cura immaginabile.

— Voi sarete obbedita, signora — replicò Giafar — e immantinente fece venire dei facchini, ordinando loro di pigliare i forzieri e di portarli a Mesrour.

Partiti questi, il gran Visir parlò all’orecchio del Giudice di polizia, incaricandolo di far demolire la casa, e di farvi prima cercar dappertutto Ganem, ch’egli sospettava fosse nascosto, checché gliene avesse detto Tormenta. Appena Giafar fu uscito di casa, i muratori ed i legnaiuoli cominciarono a demolirla, e fecero sì bene il loro dovere che in meno di un’ora non ne restò alcun vestigio.

Ma il Giudice di polizia non avendo potuto trovare Ganem, qualunque perquisizione ne avesse fatta, ne fece dare avviso al gran Visir, prima che questo ministro arrivasse al palazzo.

— Ebbene — gli disse Haroun-al-Rascid vedendolo entrare nel suo gabinetto — hai tu eseguiti i miei ordini?

— Sì, o signore — rispose Giafar — la casa ove abitava Ganem è demolita dal fondo alla cima, e vi conduco Tormenta vostra favorita che sta alla porta del vostro gabinetto, e che introdurrò, se me l’ordinate. Quanto al giovine mercante, non si è potuto trovare, ad onta che l’avessi fatto cercar dappertutto. Tormenta assicura che è partito per Damasco da un mese.

Il Califfo non si adirò con Tormenta.

— Ma — rispos’egli — poss’io fidarmi alle assicurazioni che tu mi dai della irreperibilità di Ganem?

— Sì — soggiunse ella — voi lo potete. Io non vorrei per nulla al mondo celarvi la verità. E per provarvi che son sincera, è d’uopo che vi faccia una confessione che vi dispiacerà forse: ma ne domando perdono anticipatamente alla Maestà Vostra.

— Parla, figliuola mia — disse allora Haroun-al-Rascid — io ti perdono tutto, a condizione però che non mi nascondi nulla.

— Ebbene — replicò Tormenta — sappiate che l’attenzione rispettosa di Ganem, congiunta a tutti i buoni uffici resimi, mi fecero concepire della stima per lui; passai anche più oltre, voi conoscete la tirannia dell’amore, e sentii nascere nel mio cuore per lui teneri sentimenti. Egli se ne accorse, ma lungi dal cercare di profittare della mia debolezza, e ad onta di tutto il fuoco da cui si sentiva ardere, restò sempre fermo nel suo dovere, e quanto la passione poté strappargli, fu unicamente in quei termini che ho già detti alla Maestà Vostra: «Ciò che appartiene al padrone è proibito allo schiavo!»

Questa ingenua dichiarazione avrebbe forse inasprito di ogni altro che il Califfo, ma ciò terminò d’addolcire quel principe.

Ordinolle di alzarsi, e fattala sedere vicino a lui:

— Raccontami, — le disse — la tua storia dal principio fino all’ultimo.

Ed ella lo soddisfece con molta destrezza e spirito.

Quando aveva cessato di parlare, quel principe le disse:

— Io credo tutto quello che mi avete raccontato: ma perché avete tardato a darmi vostre notizie? Bisognava egli aspettare un mese dopo il mio ritorno per farmi sapere dove eravate?

— Commendatore dei credenti — rispose Tormenta — Ganem usciva così raramente dalla sua casa che non bisogna stupirvi se non abbiamo saputo subito il vostro ritorno. D’altra parte Ganem, che s’era incaricato di far pervenire il biglietto che ho scritto ad Alba del Giorno, è stato lungo tempo senza poter trovare il momento favorevole di rimetterlo in mano propria.

— Basta, Tormenta — riprese il Califfo — conosco il mio fallo, e vorrei ripararlo colmando di benefici questo giovane mercante di Damasco. Vedi dunque quanto puoi fare per lui. Domanda ciò che vuoi ed io te lo concederò.

A queste parole la favorita s’inginocchiò dinanzi al Califfo colla faccia contro terra, e rialzandosi disse:

— Commendatore dei credenti, dopo aver ringraziata la Maestà Vostra per Ganem, la supplico umilissimamente di far pubblicare nei vostri Stati che perdonate al figliuolo di Abou Aibou. e che egli non ha da far altro che venire a trovarvi.

— Io farò di più — soggiunse quel principe — per avervi conservata la vita e per ricompensare la considerazione che ha avuta per me, per risarcirlo della perdita dei suoi beni, e da ultimo per riparare il torto che ho fatto alla sua famiglia, te lo do per isposo!

Tormenta non poteva trovare espressioni sufficienti a ringraziare il Califfo della sua generosità.

Poscia si ritirò nell’appartamento che occupava prima della crudele sua avventura. Le stesse sue suppellettili vi erano ancora, non essendosi nulla toccato. Ma ciò che le cagionò maggior piacere fu di vedere i forzieri e le balle di Ganem che Mesrour aveva avuto cura di farvi portare.

L’indomani Haroun-al-Rascid dette ordini al gran Visir di far pubblicare per tutte le città dei suoi Stati ch’egli perdonava a Ganem, figliuolo di Abou Aibou.

Ma questa pubblicazione fu inutile, perocché scorse un tempo considerevole senza che si sentisse parlare di quel giovine mercante.

Tormenta, credette senza dubbio che non avesse potuto sopravvivere al dolore di averla perduta: ma siccome la speranza è l’ultima cosa che abbandona gli amanti, supplicò il Califfo di permettere di fare ella stessa la ricerca di Ganem. Il che essendole stato concesso, ella prese una borsa di mille piastre d’oro ed uscì una mattina dal palazzo, sopra una mula della scuderia del Califfo, riccamente bardata; due eunuchi neri l’accompagnavano.

Essa andò ove si adunavano i gioiellieri.

Fermatasi innanzi alla porta, senza scendere a terra, fece chiamare il sindaco da uno degli eunuchi.

— Io mi rivolgo a voi — diss’ella mettendogli la borsa fra le mani — come ad un uomo di cui si vanta la pietà. Io vi prego di distribuire queste monete ai poveri stranieri che assistete.

— Signora — le rispose il sindaco — io eseguirò con sommo piacere quanto mi ordinate: ma se avete desiderio di esercitare la vostra pietà da voi medesima, o prendervi la pena di venire a casa mia, vi vedrete due donne degne della vostra compassione. Io le incontrai ieri quando giungevano nella città.

Tormenta, senza sapere il perché, sentissi qualche curiosità di vederle.

Il sindaco voleva condurla alla sua casa: ma essa non permise che egli si desse tal pena, e vi si fece condurre da uno schiavo che quegli le dette.

Giunta che fu alla porta, scese a terra, e seguì lo schiavo. La moglie del sindaco prostrossi innanzi a lei per dimostrare il rispetto che ella nutriva per tutto quello che apparteneva al Califfo. Tormenta la rialzò e le disse:

— Mia buona signora, pregovi di farmi parlare alle due forestiere giunte ieri a Bagdad.

— Signora — rispose la moglie del sindaco — stanno coricate in questi due piccoli letti che vedete l’uno vicino all’altro.

Queste due donne erano l’una giovane e l’altra vecchia e dalla somiglianza del volto si capiva dovevano essere madre e figlia.

La favorita subito accostossi a quello della madre, e dopo averla considerata con attenzione:

— Mia buona donna — le disse — sono qui per offrirvi i miei servigi. Io non sono senza credito in questa città e potrò esser utile a voi ed alla vostra compagna.

— Signora — rispose questa — alle obbliganti offerte che voi ci fate, scorgo che il cielo non ci ha abbandonate del tutto, ad onta che avessimo molta ragione di crederlo, dopo le disgrazie accaduteci.

La favorita del Califfo, dopo aver asciugato le sue lacrime, le disse:

— Partecipateci di grazia le vostre sciagure.

— Signora — replicò l’afflitta — io sono la vedova di Abou Aibou mercante di Damasco, ed aveva un figlio chiamato Ganem, il quale essendo venuto a Bagdad è stato accusato di aver rapita Tormenta. Il Califfo dappertutto lo ha fatto rintracciare per farlo morire; non avendolo potuto trovare ha scritto al re di Damasco imponendogli di far saccheggiare e spianare la nostra casa, esponendo mia figlia che si chiama Forza dei Cuori ed io per tre giorni consecutivi tutte nude agli occhi del popolo, e poscia bandirci per sempre dalla Siria!

Pur nondimeno, ad onta del crudelissimo modo con cui siamo state trattate, me ne consolerei, se mio figlio vivesse ancora ed io potessi incontrarlo. Quale piacere sarebbe mai per sua sorella e per me di rivederlo! Oblieremmo, abbracciandolo, la perdita di tutte le nostre ricchezze e tutti i mali che per cagion sua abbiamo sofferti. Ohimè! sono persuasa ch’egli non è più reo verso il Califfo, di quello che lo siamo sua sorella ed io.

— No, senza dubbio — interruppe a questo punto Tormenta — egli non è più reo di voi. Io posso assicurarvi della sua innocenza, imperocché quella Tormenta di cui avete tanto a dolervi e che per fatalità dei pianeti ha cagionate tutte le vostre sciagure, sono io! Io ho giustificato Ganem presso il Califfo, il quale ha fatto pubblicare in tutti i suoi stati che egli perdonava al figlio di Abou Aibou: né dubitate ch’egli v’impartisca altrettanto bene per quanto male vi ha cagionato. Voi non siete più sue nemiche, anzi, egli aspetta Ganem per ricompensarlo del segnalato servigio prestatomi, unendo i nostri destini, e concedendomi a lui in moglie; sicché consideratemi come vostra figliuola.

Dopo che la vaga favorita del Califfo, ebbe dato alla madre ed alla figliuola tutte le dimostrazioni di amore che queste potevano bramar dalla moglie di Ganem, disse loro:

— Tralasciate l’una e l’altra di affliggervi, imperocché le ricchezze che Ganem aveva in questa città non sono andate perdute, ma stanno nel palazzo del Califfo nel mio appartamento.

Tormenta stava per proseguire, quando sopraggiunto il sindaco dei gioiellieri, le disse:

— Signora, in questo punto ho veduto un oggetto molto compassionevole, un giovane che un guardiano di cammelli conduceva all’Ospedale di Bagdad. Stava legato con corde sopra un cammello, perché non aveva forza sufficiente da sostenervisi. Lo si era già sciolto per portarlo all’ospedale quando io son passato per colà. Avvicinatomi a lui e consideratolo attentamente, mi è sembrato che il suo sembiante non mi fosse stà ignoto. Io ne ho avuto gran pietà, e conobbi per la pratica che ho di veder infermi, aver egli un imminente bisogno di esser curato.

Tormenta rimase assai stupita a tale discorso del gioielliere, e sentì un’emozione di cui non sapeva spiegarsi la ragione.

— Conducetemi, — ella disse — nella camera di questo infermo.

La favorita del Califfo, pervenuta nella camera ove stava l’infermo, avvicinossi al suo letto. Vide un giovine il quale teneva gli occhi chiusi, la faccia pallida e coperta di lacrime: e nell’osservarlo con attenzione le palpitò il cuore credendo di riconoscere Ganem.

Non potendo resistere alla brama di chiarirsene con voce tremante gli disse:

— Ganem, siete voi che io miro?

Ganem, poiché era appunto lui, aprì gli occhi e girò il capo verso la persona che parlavagli, e riconoscendo la favorita del Califfo, le disse:

— Ah! signora, siete voi? Per qual miracolo?

Ma non poté terminar di parlare, perché venne oppresso all’improvviso da un tal trasporto di gioia che svenne. Tormenta ed il sindaco s’affrettarono a soccorrerlo, ma appena videro ch’egli incominciava a rimettersi del suo svenimento, il sindaco pregò la favorita a ritirarsi, temendo che la sua vista non irritasse maggiormente il male di Ganem.

Tormenta stava nella camera di Forza del Cuori e di sua madre, ove seguì quasi la scena stessa: imperocché quando la madre di Ganem seppe che quel forestiere infermo, che il sindaco aveva fatto condurre in casa sua, era suo figlio, ne provò tanto giubilo che svenne essa pure.

Rinvenuta finalmente, Tormenta ripigliando il discorso disse:

— Benediciamo il cielo di averci tutti uniti in uno stesso luogo. Intanto io adesso me ne ritorno al palazzo ad informarne il Califfo dell’accaduto, e domani mattina sarò di ritorno.

Giunta al palazzo chiese una segreta udienza ed avendola ottenuta all’istante, si prostrò innanzi ad Haroun-al-Rascid.

Il Califfo la rialzò e le chiese se per avventura avesse sapute notizie di Ganem.

— Gran Commendatore dei credenti — essa gli rispose — ho tanto fatto ed operato, che finalmente l’ho ritrovato con sua madre e con sua sorella.

— Ho gran piacere — egli disse a Tormenta — del fortunato successo delle tue ricerche, e ne provo un giubilo estremo. Terrò, non dubitarne, la promessa fatta. Tu sposerai Ganem, e presentemente protesto che tu non sei più mia schiava ma ti dono la libertà! Vanne a ritrovare quel giovane mercante, e subito che la sua salute sarà ristabilita, lo condurrai in compagnia di sua madre e di sua sorella.

Il giorno seguente, di buon mattino, Tormenta non trascurò di andar dal sindaco dei gioiellieri e di raccontare alla madre ed alla figliuola le buone notizie che avea loro ad annunziare.

Fu stabilito che Tormenta entrerebbe prima da sé sola nella camera di Ganem, e ch’essa farebbe cenno alle due altre donne di comparire, quando ne sarebbe il tempo.

Regolate le cose in tal maniera, Tormenta fu introdotta dal sindaco nella camera dell’infermo, il quale restò talmente stupito di rivederla, che poco mancò non cadesse di nuovo in deliquio.

— Ebbene, o Ganem — diss’ella accostandosi al suo letto — avete alfine ritrovata Tormenta, che credevate aver per sempre perduta! Sì, caro Ganem, io mi sono giustificata nello spirito del gran Commendatore dei credenti, il quale per riparare il male che vi ha fatto soffrire mi vi concede per moglie!

— Ah! bella Tormenta, posso io prestar fede al discorso che mi fate? Crederò io veramente che il Califfo vi concede al figlio d’Abou Aibou?

— Nulla è di più vero — replicò la Favorita.

Ganem chiese in qual maniera il Califfo avesse trattato sua madre e sua sorella, il che Tormenta gli narrò.

Non poté egli udir questo racconto senza piangere, ma quando Tormenta gli disse ch’esse in quel momento ritrovavansi a Bagdad, e nella casa stessa ov’egli stava, dimostrò un’impazienza sì grande di vederle, che la favorita le chiamò.

Appena furono entrate, s’inoltrarono verso Ganem, ognuna di loro abbracciandolo e baciandolo per molte e molte volte.

Tre giorni dopo Ganem, sentendosi forze sufficienti per uscire, vi si dispose: ma in quel punto videsi giungere alla casa del sindaco il gran visir Giafar.

Questo ministro veniva a cavallo con grande accompagnamento di ufficiali.

— Signore — diss’egli a Ganem nell’entrare — qui vengo in nome del gran Commendatore de’ credenti mio e vostro padrone. Devo accompagnarvi dal Califfo, il quale ha molta brama di vedervi.

Ganem non rispose se non con un profondissimo inchino, e salì sopra un cavallo di quelli delle scuderie del Califfo.

Si fecero salir la madre e la figliuola sopra due mule del palazzo, e Tormenta, salita anch’essa sovra una mula, furon condotte al palazzo del principe per istrade remote.

Quando il Visir ebbe condotto Ganem a piè del trono, questo giovine mercante fece il suo inchino prostrandosi colla faccia a terra, e rialzandosi poscia, formò un nobile complimento in versi, i quali ancorché all’improvviso composti, non lasciarono di fargli ottenere l’approvazione di tutta la Corte. Dopo il complimento, il Califfo lo fece avvicinare e dissegli:

— Ho molto piacere di vederti, e di sapere da te stesso ove hai trovata la mia favorita, e quanto hai operato per lei.

Indi gli fece dare una veste molto ricca e gli disse:

— Voglio, mio caro Ganem, che tu dimori nella mia Corte!

— Gran Commendatore dei credenti — rispose, il giovine mercante — lo schiavo altro volere non nutre se non quello del suo padrone.

Questo principe discese poscia dal suo trono e facendosi accompagnar da Ganem e dal gran Visir solamente, entrò nel suo appartamento.

Siccome egli non dubitava che Tormenta non vi si trovasse colla madre e colla figliuola di Abou Aibou, ordinò che fossero condotte al suo cospetto, ed esse, come furono entrate, se gli prostrarono innanzi.

Dopo che le ebbe fatte rialzare, fu ammirato della bellezza di Forza dei Cuori e dopo averla attentamente considerata le disse:

— Provo tanto dolore di aver trattate con tanta inumanità le vostre bellezze, che vi sono debitore di una compensazione, la quale superi l’offesa fattavi. Voglio però che diventiate mia moglie, e con questo castigherò Zobeida, la quale diverrà così la cagione principale della vostra felicità, come la è stata delle vostre passate disgrazie. In ciò non consiste tutto — soggiunse egli volgendosi verso la madre di Ganem. — Signora, voi siete ancor giovane, e credo che non sdegnerete l’alleanza col mio gran Visir. Io vi assegno a Giafar: e voi, o Tormenta, a Ganem. Che facciasi venire un Cadì e dei testimoni, acciò i tre contratti sieno stipulati e sottoscritti nel medesimo tempo.