AMBIENTE E NATURA: AL CENTRO DEL NOSTRO PROGETTO rubrica di CORRERENELVERDEONLINE

  Ambiente e Natura Cosa sono l'ambiente e la natura? Protocollo di Kyoto Enti ambientali Associazioni naturalistiche CFS (Corpo Forestale dello Stato) ERSAF (Ente Regionale per i Servizi dell'Agricoltura e Foreste) CAI (Club Alpino Italiano) FAI (Fondo Ambiente Italiano) Greenpeace Legambiente WWF Lipu (Lega Italiana Protezione Uccelli)

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Leggi e normative

Legge 21 novembre 2000, n. 353

Legge 9 dicembre 1998, n. 426

Protezione dalle esposizioni a campi elettrici

DL n° 230/1995 modificato

D.P.R. 13 marzo 1976, n. 448

 

 


 

 

 

Ambiente e Natura: per vivere meglio con più consapevolezza

TREKKING SUL GRAN SASSO

Gran Sasso

Fare trekking è un’esperienza decisamente energizzante: di solito si parte la mattina presto, quando l’aria è ancora frizzante e leggera e lo spirito vorrebbe superare le forze ancora tenui e fiaccate dal sonno, ingordo ed impaziente di abbracciare con lo sguardo orizzonti color zaffiro e smeraldo, di sentire nelle narici il vento profumato da aspre fragranze, di attivare le membra in un’ascesa che ossigeni i pensieri, finalmente incorniciati dalla libera immaginazione, troppo spesso prigioniera di affanni e preoccupazioni. Si inizia la giornata con la colazione e i preparativi “tecnici” di attrezzatura necessaria. Lo zaino di un buon escursionista non può mancare di un cambio di abbigliamento per eventuali piogge, di acqua e cibi leggeri ma energetici, di solito frutta e panini. In questa occasione, con obbiettivo Gran Sasso, dentro di me si fa strada l’entusiasmo di mettermi alla prova, di “sentire” col corpo e la mente un’emozione nuova e forte, mentre si allontanano le campane di una chiesa di quartiere che accompagnano coi loro amichevoli rintocchi, in questi primi metri di strada verso l’Abruzzo. Destinazione Campo Felice, meta di sciatori d’inverno e di escursionisti durante la stagione estiva: il nostro percorso si snoderà dal rifugio-base di “Alantino” (1550 metri) fino al “Rifugio Sebastiani” (2112 metri), con un dislivello di circa 700 metri.

La bellezza del trekking è che aiuta ad armonizzare gli spiriti dei partecipanti, tutti concentrati sull’idea di trascorrere una giornata a contatto con la natura, fin dalla partenza, mentre l’asfalto scorre via come un lungo nastro di grigia e molle seta sotto le ruote. Eccoci, ci siamo: poco dopo l’uscita del casello autostradale, si intravede in lontananza la grande costruzione che durante i mesi invernali è immersa in una coltre incredibilmente bianca ed uniforme, l’albergo “Alantino”, ora sperduto in una verdissima vallata incorniciata da colline e montagne che sembrano sorridere beate ai raggi tiepidi ed incerti di un disco sempre più acceso in un blu sempre più intenso. Zaini in spalla e un passo dopo l’altro: attraversiamo il pianoro assolato in cui gli unici elementi che attirano lo sguardo, disperso in un’appagante distensione, sono minuscoli e numerosissimi fiori bianchi, gialli e blu, disposti come su un tappeto incantato, tessuto da un bizzarro sarto che lo ha reso cangiante ad ogni metro.

Le gambe sentono rinnovate energie per correre, rallentare, salire lievi pendii in un panorama magico ed immobile. Una collina dopo l’altra, fra cucuzzoli carsici e doline, vallate che si schiudono di fronte ai miei occhi, mentre il mio cuore gioca con ogni filo d’erba, si rotola lungo le morbide discese e fa capriole per sentirsi vivere in questo universo tanto semplice quanto perfetto e completo allo stesso tempo. Dopo circa 40 minuti di sentiero ci inoltriamo in un bosco di faggi, che regala fresco ed ombra alla pelle appena arrossata dal sole e lievemente imperlata di sudore: qua e là tra le chiome degli alberi la luce penetra nella verde galleria per disegnare a terra forme bizzarre e fantasiose, che i piedi giocano a calpestare. Sui margini del sentiero occhieggiano orchidee selvatiche, splendide ciocche di delicati petali bianchi e viola, venate di sfumature sottili, ma dai toni persistenti. Qua e là cumuli di terra, rifugi e gallerie di talpe, basse bacche di ginepro che ci portano ad immaginare fumanti arrosti e aromatiche grappe in questo paradiso. Il verde oscuro si sfuma verso la luce in un anfiteatro naturale al termine del bosco: è mozzafiato il circolo di monti e ghiaioni dai mille grigi, che insistono su un lago d’erba, la Valle Leona, trapunta di anemoni bassi e delicatissimi, nati da poco grazie allo scioglimento delle nevi, che chinano la testa sotto i passi più leggeri e lenti. Un brivido veloce si arrampica lungo la mia schiena mentre lo sguardo si perde ad immaginare mondi nascosti oltre le vette ancora zebrate da lingue di candida e glassata neve sulle estremità più alte del monte Puzzillo e sui versanti più ombrosi e brulli. La sella del Morretano sulla destra offre un occhiello di cielo limpidissimo fra le alture, mentre lentamente sopra le nostre teste si avvicinano, lente ma inesorabili, nuvole di panna montata. Oltre e ancora oltre: solo ora si intravede un puntino rosso e minuscolo quasi in cima al monte più lontano, che troneggia di fronte ai nostri petti ansimanti di fatica ed emozione: gli occhi si ubriacano di cielo per l’ultimo istante, mentre alle nostre spalle, dalle profondità delle verdi gallerie, si odono magicamente alternati il verso del cuculo ed il cinguettio dei passeri, in un concerto intervallato da sublimi silenzi.

Ancora avanti: la mano passa sulla fronte a scansare i capelli, come per lasciar libera la fronte di immagazzinare nella memoria ogni fotogramma di questa pellicola in movimento. In lontananza vediamo delle figure in movimento: cinque, anzi sei persone nella vallata, immerse nel verde fino alle ginocchia. Alcune sono rivolte verso di noi, forse escursionisti di ritorno, i primi incontrati da stamattina. Ci avviciniamo di più e man mano capiamo cosa fanno: chini sulla pianura raccolgono gli “orapi”, una specie di spinacio selvatico che cresce spontaneo ed abbondantissimo qui nel comprensorio di Lucoli, paesino a circa 10 km. da Campo Felice, zona inserita nel parco regionale del Sirente-Velino. Sono contadini di queste parti, tre uomini e tre donne che punteggiano il verde con i loro abiti da lavoro dai colori sgargianti e genuini: ci spiegano che l’orapo è ottimo, bollito e col limone. Un breve saluto, l’augurio di buon lavoro e lo sguardo punta avanti, al “Sebastiani”, verso il Colletto di Pezza: sfida e obiettivo, con la voglia di arrivare in cima che lotta con quella che vorrebbe continuare per sempre questa strada di sassi e sentieri. Altri due o tre saliscendi ed eccoci alla base della vetta, che ha fatto scomparire dalla prospettiva le montagne circostanti per attirare tutta l’attenzione su di sé, l’ultimo baluardo di questo percorso da “espugnare”. La salita si fa più intensa, il sentiero tortuoso e ripido, ogni passo è studiato per scegliere la roccia più sicura, l’appoggio più saldo, il percorso più conveniente: intanto le candide nuvole si gonfiano di pioggia e si abbassano grigiastre.

È necessario accelerare il passo, mentre sempre più spesso si alzano gli occhi per individuare lo snodarsi del sentiero, sempre più sottile e meno riconoscibile fra le rocce.

L’aria si fa umida, il respiro accelera per la fatica: bisogna evitare di trovarsi ancora in marcia quando inizierà a piovere. Un passo, un passo, ancora uno: ora posso scorgere l’estremità superiore della bandiera, posta a fianco del rifugio, mentre sento le prime gocce, fredde e pesanti dietro il collo e sulle braccia. È come lo sprint finale di una gara: manca una manciata di passi, ci rincuoriamo e stimoliamo a vicenda durante la fine della salita…ed ecco la piccola radura sulla cima! Il rifugio ha la porta aperta, dentro un tavolo di legno, una microscopica stanza con tre letti a castello con sopra tre coperte, una piccola dispensa a muro ed un fornellino con dei fiammiferi. Appena entrati, fradici più di sudore che di pioggia, ancora ansimanti ci sorridiamo, soddisfatti di avercela fatta.

Fa freddo qui e per mangiare i panini è meglio mettersi le giacche a vento: un attimo di pausa, mentre ci guardiamo intorno nel piccolo ma prezioso ambiente di ristoro, con gli occhi vivi e assetati di ossigeno. Penso, mentre leggo le istruzioni affisse al muro per i casi di emergenza che riportano manovre di basilare pronto soccorso e numeri utili, a quante persone abbiano messo piede qui, stanche ma appagate dal piccolo viaggio naturale da noi appena compiuto. Le bottiglie vuote con dentro colate di cera e candele ancora buona ci dimostrano quanto questa scarna costruzione (inaugurata nei primi anni ’20 e restaurata dal Club Alpino Italiano nel 1976) sia stata approdo di escursionisti stanchi, in difficoltà, infreddoliti o zuppi per un’improvvisa pioggia, o semplicemente affannati come noi poco fa.

Ancora risuona nelle mie orecchie il  rumore ottuso e vuoto degli ultimi passi sul terreno roccioso, come il regolare pulsare del cuore della terra, ancora abbraccio con gli occhi il panorama immenso della pianura dei Piani di Pezza sottostante, al centro della quale si snoda come una snella biscia una strada bianca e sinuosa, mentre sentiamo i chicchi di grandine rimbalzare sulla piccola finestra.

È pausa, è gioia, è soddisfazione: fra poco arriverà il momento di scendere, ma per ora restiamo qui, a calpestare le morbide travi lignee, in perfetta comunione con il nostro spirito e con una natura dispettosa ma clemente.

Alessandra Giordani