Cultura: ASSOCIAZIONI, BIBLIOTECHE, LUOGHI, personaggi e festività rubrica di  CORRERENELVERDEONLINE

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cultura: rubrica dedicata ad associazioni, biblioteche, luoghi, personaggi e festività


 

IL GHETTO E LA SINAGOGA ROMANA

La struttura urbanistica della zona di Roma che comprende i resti del Ghetto abbraccia diversi edifici antichi: la chiesa dedicata a San Michele Arcangelo, più nota come Sant'Angelo in Pescheria, il portico d'Ottavia, il tempio di Apollo Sosiano, il teatro di Marcello e quello, appunto, che resta della zona del Ghetto.

Ai margini del Ghetto: i monumenti antichi

Il Portico d'Ottavia: una costruzione, fra le più monumentali dei tempi di Augusto, dedicata da Augusto stesso alla sorella Ottavia.

Questo monumento, costruito a somiglianza dei monumenti dei fori, ospitava luoghi di cultura, sale per spettacoli, concerti, biblioteche, eccetera.

La costruzione del Portico d'Ottavia - che in origine si chiamava PORTICUS METELLII risale all’anno 146 a.C. all'epoca di Quinto Metello - il Macedonico - che volle riunire in un unico complesso monumentale i templi di Giove Statore e di Giunone Regina (di questi templi non è rimasto nulla, solo ruderi all'interno di case private ancora abitate).

Augusto lo ricostruì, forse quasi completamente, facendone un monumento in onore della sorella Ottavia, con preziosissime opere d'arte e con biblioteche greche e latine perché il popolo romano era un popolo bilingue.

Occupava uno spazio compreso fra i 119 metri di lunghezza e i 132 metri di larghezza, cinto da doppi portici. Alla costruzione del portico lavorarono due architetti greci: Sauros e Batracos che, essendo schiavi, non potevano firmare la loro opera con il loro nome, ma impressero due " stemmi parlanti ": la lucertola (in latino saurus) il primo, la rana (in latino batracus) il secondo, a ricordo del loro nome e della loro opera.

Sulla sinistra della chiesa di Sant'Angelo in Pescheria emergono cinque colonne isolate; una più tozza e bassa delle altre, probabilmente non faceva parte del portico ma di uno stabile annesso; le altre quattro: due sono in granito grigio e due in cipollino (marmo a strati contenente mica).

Davanti alla chiesa, che sembra misera e di piccole proporzioni rispetto al Portico d'Ottavia, una moltitudine di frammenti e di resti di un quadriportico che sembra sprofondato nel suolo.

Le arcate laterali del quadriportico erano le vere porte di accesso; la porta principale, più grande, rialzata rispetto al piano di calpestio, come fosse una tribuna, quasi sicuramente consentiva agli Imperatori la sosta per rivolgersi al pubblico.

Infine, la celeberrima "pietra del pesce" che si nota appoggiata al pilastro di destra del portico; era molto più interessante quando era sormontata da una lapide con l'immagine di uno storione a testimonianza che anche il Tevere, nell'antichità, ospitava questo tipo di pesce.

La lapide che si ritiene risalga alla XV secolo contiene un’iscrizione in latino che tradotta riferisce: "devono essere date ai Conservatori (i membri del consiglio capitolino) le teste di tutti i pesci che superino la lunghezza di questa lapide fino alla prime pinne incluse ": una tassa cui dovevano soggiacere i venditori di pesce.

I banchi del pesce erano, oltre che dentro il portico d'Ottavia, anche lungo il marciapiede e in realtà non erano altro che dei lastroni di marmo, di proprietà delle famiglie nobili, affittati a prezzi altissimi ai venditori di pesce.

Fin dall'antichità il Portico d'Ottavia era un punto nevralgico per il mercato del pesce in quanto la zona, perché vicina all'isola Tiberina, aveva facilità di accesso al fiume Tevere.

Era l'unica zona illuminata di notte a Roma perché il pesce arrivava a notte inoltrata o alla mattina prestissimo per essere smistato velocemente per i vari mercati della città.

Alla destra della Chiesa di Sant'Angelo in Pescheria uno scenario di vecchie case costruite in età completamente diverse: sono case che delimitano l'antico tracciato del ghetto e sono strutture abitative costruite con materiali di reimpiego provenienti da materiale romano da costruzione; sono molto antiche (risalgono al periodo medievale) e si presentano molto malandate; il portale di accesso di una di queste case (queste case in origine erano delle torri) è tutto istoriato; probabilmente un blocco decorato di età Flavia riutilizzato come portale.

È questa una zona in cui le altezze, le proporzioni, gli stili sono mischiati: terrazzini, balconi, tetti del 400, del '700, creano una continua varietà; gli edifici sono, in massima parte, costruiti con materiali provenienti dalle antichità romane con all'interno (cantine) intere mura romane, volte, colonne, capitelli, eccetera. All'esterno si riconoscono alcuni degli elementi tipici quattrocenteschi: le finestre sopra le botteghe con centinature ad archetto, profilature quattrocentesche e modanature tipiche del 400; l'intonaco è sparito.

Come tutti i palazzi di famiglie nobili del 400, nel piano terra erano le botteghe che i nobili proprietari affittavano per avere il ricavato da destinare alla manutenzione del palazzo intero.

Interessante è il palazzo di proprietà della famiglia dei Flavi; nel piano alto conserva una loggia quattrocentesca - oggi chiusa da finestre - prerogativa di quasi tutti palazzi del 400 per prendere il fresco d'estate.

A seguire un palazzo formato da una serie di nuclei di diversi periodi con un elemento che unisce tutte queste strutture; la grande fascia bianca che contiene le iscrizioni e che gira intorno al palazzo

I primi due blocchi erano due torri, ad essi è unita una struttura molto leggiadra, quattrocentesca, con finestrelle e modanature circolari ai lati e, ancora, una struttura ad angolo anch'essa quattrocentesca.

Il tutto poggia su un tempio anch'esso scoperto da poco e dedicato al dio Nettuno : la struttura del tempio, ancora solida, è inglobata nelle cantine.

L’iscrizione, che ricalca le iscrizioni antiche romane, risale alla metà del 400.

Il proprietario di questo complesso, intorno agli anni 60 del 400, era un avvocato che si chiamava Lorenzo Manlio anche se molti lo riconoscono come Lorenzo Manili.

Lorenzo Manlio riadattò la casa intorno al 1467 e per celebrare questo rifacimento volle dare risalto alla sua passione per lo stile dell'antica Roma imitandone l'architettura e l'epigrafia. Fece predisporre la grande fascia bianca con la famosa iscrizione in cui si legge che: " questa casa è stata restaurata nel 2221 dalla "nascita di Roma "; non utilizza come punto di riferimento l’era cristiana (anno 1467 d.C.) ma l’anno della " nascita di Roma ". Ciò fa supporre che anche nel 400 l'architettura fosse un modo per comunicare dei messaggi ad un vasto pubblico.

Questo personaggio era un repubblicano convinto; un antipapa per eccellenza, tanto che in alcuni punti della facciata fece murare degli elementi antichi - come per esempio un frammento di sarcofago antico con un leone che azzanna un’antilope - non soltanto per abbellire la casa ma soprattutto per comunicare un altro messaggio di quel "suo essere", di quel "filo comune laico" di Roma, filo anti papale. Infatti, il leone che azzarda un’antilope, all'epoca, era il simbolo del potere comunale di Roma mentre la lupa, che fino al 1471 era in San Giovanni Laterano, era il simbolo del potere papale di Roma.

Il simbolo della lupa, quindi, arrivò in Campidoglio solo dal 1471 grazie al Papa Sisto IV che con una mossa molto furba riuscì a " comprare " il popolo romano e convincerlo ad adottare il simbolo della lupa avendogli restituito altri simboli che erano propri dell'età romana.

Per cui il comune di Roma, che aveva sede sul Campidoglio, sostituì il leone che azzanna l’antilope con la lupa.

A fronte di tutto questo, Lorenzo Manlio - personaggio innamorato dell'antica Roma ma anche antipapa - conosceva bene la storia del simbolo e utilizzò il citato frammento di sarcofago non solo perché bellissimo ma soprattutto per comunicare questo suo messaggio.

 

La storia della comunità ebraica romana

La comunità ebraica di Roma è la più antica in Europa poiché gli ebrei vi giunsero, con una prima delegazione, già nel II secolo a.C. e si stabilirono al di là del Tevere (Trastevere). Vi giunsero come ambasciatori di Giuda e Simone Maccabeo, i figli del sacerdote Matatia, allo scopo di richiedere al Senato romano un’alleanza contro Antioco IV Epifane che aveva profanato il tempio di Gerusalemme.

Per la posizione che Roma aveva nel mediterraneo molti ebrei decisero spontaneamente di non lasciare più questa città in quanto favoriti negli scambi commerciali.

Con la colonizzazione romana della Giudea da parte dell'imperatore Tito, figlio di Vespasiano e la distruzione del tempio di Gerusalemme, iniziò la diaspora (dispersione): gli ebrei fuggirono verso la Spagna (sefarditi viene da Sefaràd che vuol dire Spagna in ebraico) e verso la Germania e l'Europa orientale (ashkenaziti viene da Ashkenàz che vuol dire Germania in ebraico); altri ebrei furono condotti da Tito a Roma in schiavitù.

Durante il medioevo gli ebrei si trasferirono da Trastevere. (ancora oggi esistono tracce delle loro sinagoghe) all'altra sponda del Tevere.

Una migrazione continua che ha inciso anche profondamente sul carattere degli ebrei sempre erranti, sempre in partenza, sempre in arrivo. E’ di qui che deriva, probabilmente, uno degli aspetti del carattere complesso di molti ebrei: il loro spiccato cosmopolitismo, cioè la disponibilità, forse anche l’inclinazione a trasferire il domicilio, da un luogo ad un altro, da una nazione ad un’altra, adattandosi presto alle nuove condizioni di vita.

Narra una leggenda romana che proprio in concomitanza con una di queste numerose peregrinazioni, un simbolo molto caro agli ebrei (che diverrà poi lo stemma d’Israele); l’amenorah – il candelabro a sette bracci, tanti quanti i giorni serviti per la creazione del mondo- cadde nel fiume Tevere e nonostante le insistenti ricerche non si trovò più.

L'atteggiamento del papato nei confronti degli ebrei fu caratterizzato da una discriminazione tendente alla loro separazione e al loro isolamento dal resto della popolazione, tanto che nel 1215 la chiesa costrinse gli ebrei ad indossare un segno di riconoscimento sui loro vestiti.

Non era questa una novità per gli ebrei; il primo ad imporre un segno di riconoscimento fu un califfo arabo, verso la metà del VII secolo: era un pezzettino di stoffa colorata con la forma di un maiale.

Il 31 marzo 1492 la Regina di Spagna Isabella la cattolica ed il Re Ferdinando firmarono un decreto in forza del quale tutti gli ebrei dovevano lasciare la Spagna entro quattro mesi, senz’altra alternativa all’infuori del battesimo o della morte. I più partirono e fu un esodo di grandi proporzioni; si diressero in Portogallo, dal quale sarebbero stati espulsi nei successivi decenni; si diressero in Germania, nei Paesi Bassi e gli ultimi lasciarono la Spagna nei primi giorni dell’agosto del 1492 quasi in concomitanza con la partenza di Cristoforo Colombo per le "Americhe": impresa finanziata in buona parte anche dagli ebrei più facoltosi.

I profughi che muovevano da Siviglia verso oriente non avevano molte scelte; la Francia ne aveva già provveduto ad un’espulsione massiccia per cui restavano solo i porti del Mare Egeo, del Medio Oriente e di Napoli su cui regnava Ferdinando II d’Aragona.

A Napoli gli ebrei sbarcarono a frotte ma poterono rimanere solo per un decennio una volta esteso il dominio spagnolo all’intero Regno.

Non tutti gli ebrei di Spagna, nel 1492, abbandonarono il paese; alcuni preferirono abiurare la loro fede accettando la seconda alternativa prevista nel decreto di Re Ferdinando; si convertirono al cattolicesimo e furono chiamati "marrani" che in spagnolo significa "maiali".

La loro vita divenne difficile e insopportabile sia per le restrizioni imposte alla loro libertà, sia per l’appellativo allusivo all’animale al quale erano paragonati con disprezzo (secondo il noto precetto della religione ebraica il maiale non poteva essere considerato un alimento) ma soprattutto per il continuo sospetto di voler essere segretamente fedeli alla religione degli avi..

Bisogna riconoscere che i sospetti sui marrani erano spesso fondati: la maggioranza di loro rimase fedele alla religione dei padri. Si poté costatare molto tempo dopo, allorché, caduto ogni timore, i marrani tornarono pubblicamente, in massa, alla religione di Abramo.

Il Papa Alessandro VI Borgia permise agli ebrei di vivere a Roma ma, dopo di lui Papa Paolo IV Carafa nel 1555 - in pieno concilio di Trento - fece istituire in ogni città i ghetti perché riteneva assurdo che gli ebrei - considerati accusati di deicidio (accusa abolita solo nel 1963 da Papa Giovanni XXIII nell'enciclica "Nostra Aetate") - fossero giudicati uguali ai cattolici e che vivessero insieme nella stessa città.

Il primo ghetto non fu quello di Roma ma di Venezia; si dice che la parola ghetto derivi dal nome del quartiere ebraico veneziano che si trovava vicino ad una fonderia; " gettare il metallo " nel dialetto veneziano si dice "ghettare".

L'area del ghetto di Roma era la più malsana e insalubre della città in quanto molto bassa rispetto al livello del Tevere e costantemente inondata dalle acque dello stesso anche più volte l'anno.

Un muro circondava la zona e cinque cancelli su di esso erano aperti soltanto durante il giorno per permettere agli ebrei di uscire per esercitare i due soli mestieri a loro consentiti: vendita ambulante di stracci e prestiti ad usura, sempre indossando, però lo speciale contrassegno di colore giallo a dimostrazione dell'appartenenza al popolo ebraico.

In diverse città italiane il segno imposto alle donne ebree era identico a quello che dovevano portare le prostitute.

I cancelli erano sorvegliati da una sentinella (la cui remunerazione era a carico degli ebrei); nessun ebreo poteva allontanarsi dal ghetto di notte se non voleva essere gravemente punito.

Sporcizia, umidità, mancanza di aria erano le caratteristiche inevitabili di questi luoghi coatti dove un affollamento incredibile, fino a otto esseri umani in una stanzetta, imponevano condizioni di vita molto penose.

Il ghetto fu demolito nel 1870 con l'unificazione d'Italia e la perdita del potere temporale dei Papi.

Quando il ghetto fu smantellato, per ragioni sanitarie, si decise di raderlo completamente al suolo e costruire nello stesso posto alcuni nuclei abitativi che ancora oggi sussistono: sono quattro blocchi di cui uno è la sinagoga.

La principale ragione dello smantellamento e della ricostruzione è, senza dubbio, quella sanitaria ma nulla fa negare l'idea che un’altra ragione sia a fondamento di tali provvedimenti: la volontà, l’illusione di cancellare completamente la memoria di qualche cosa di cui vergognarsi.

 

Usi e costumi ebraici

Gli ebrei, come già detto, potevano prestare denaro a usura perché essendo considerati eretici potevano " sporcarsi " con questa immoralità; potevano riciclare gli stracci e nel luogo che una volta era destinato al ghetto esistono, ancora, diverse mercerie.

Ad esercitare l’usura, l’ebreo era spinto da due importanti ragioni; la prima è quella citata sopra, la seconda: il permesso di esercitare l’usura equivaleva alla attribuzione di una – diremo oggi - qualifica di incaricato di pubblico servizio, il che migliorava molto la posizione sociale dell’ebreo, garantendogli alcune libertà.

E, così, a partire dal XII secolo, l’usuraio è di norma un ebreo e la parola ebreo acquista il significato di usuraio.

Gli ebrei prestavano denaro a tutti: ai Governi per finanziare le guerre, ai ricchi per soddisfare i loro divertimenti, ai poveri per fronteggiare le disgrazie della vita; ed essendo assai elevato il rischio di non vedersi restituire il denaro prestato, gli interessi sono molto alti. Di qui l’aumento dell’odio verso gli ebrei nonché la nascita, nel XV secolo, dei Monti di Pietà.

Nel Ghetto vi erano cinque Sinagoghe chiamate Scole, tre erano di rito sefardita (spagnolo) come la Scola Catalana, la Scola Castigliana e la Scola Siciliana e due di rito italiano: la Scola Nova e la Scola Tempio.

Piazza delle Cinque Scole si chiama così perché Scola è il termine che indica la Sinagoga; la Sinagoga non è solo un tempio religioso ma è anche una vera e propria scuola che insegna il comportamento, la vita.

Tutti i membri della comunità ebraica sono obbligati ad andare a scuola anche oltre la scuola normale a partire dai 6-8 anni per imparare la lingua, il comportamento, lo stile di vita.

Quindi il tasso di istruzione è sempre stato altissimo nella comunità ebraica anche in un periodo in cui in Italia e in Europa il numero degli analfabeti era notevole.

Gli ebrei studiano per far conoscere ai loro discendenti i Testi Sacri; gli ebrei studiano perché le loro principali attività richiedono un minimo di istruzione in quanto vivono nel mondo degli affari; studiano per affermarsi nell’unica professione che era loro consentito di esercitare: la medicina.

Molti erano i medici ebrei durante il Medioevo e il Rinascimento; la loro fama era talmente grande che il medico di fiducia del Papa era molto spesso un ebreo.

La fontana che si trova in Piazza delle Cinque Scole, originariamente, era in Piazza Giudea, di fronte alla casa di Lorenzo Manlio, metà dentro il ghetto meta fuori dal ghetto.

Era la prima fontana fatta per gli ebrei del ghetto; la prima fonte di acqua corrente nel 1612, dopo secoli dell'uso del Tevere come unica fonte di acqua.

E una fontana molto consumata, la costruì, su ordinazione di Paolo V Borghese, Giacomo Della Porta, autore di molte fontane a Roma (come quella delle tartarughe, quella del Pantheon, quella di Piazza Colonna nonché le due piccoline di Piazza Navona: una delle due poi fu decorata da Bernini).

Il ciclo della vita

La circoncisione (milà in ebraico) - praticata al bambino nell’ottavo giorno della sua nascita - non è un intervento operatorio senza significato, è la consacrazione del patto stabilito tra il popolo di Israele e Dio fin dai tempi di Abramo.

Verso i cinque anni, quando è in grado di leggere il bambino ebreo è indirizzato allo studio dei testi religiosi per prepararsi - all’età di 13 anni - ad un esame, alla presenza di un rabbino, e dimostrare di essere seriamente pronto a sostenere la cerimonia del Bar Mizvà (letteralmente figlio del precetto). Una volta proclamato bar mizvà il giovane ebreo diventa membro adulto della comunità.

Anche le ragazze ebree debbono arrivare alla cerimonia del Bat mizvà attraverso la stessa preparazione che si richiede per i ragazzi ed osservare i precetti con un impegno non inferiore a quello dell’uomo; l’età richiesta per le ragazze è di 12 anni.

Sia i ragazzi che le ragazze, una volta diventati membri adulti della comunità dovranno seguire scrupolosamente i precetti della loro religione.

Vi sono i precetti etico-religiosi: il decalogo e le norme contenute nella Bibbia; e i precetti di rito che regolano la vita dell’ebreo come per esempio quello della preghiera molte volte al giorno; quello di non consumare carne di quadrupedi che non abbiano lo zoccolo fesso e che non siano ruminanti: quindi niente carne di maiale, di coniglio, di cavallo. Quella bovina e ovina e così pure il pollame può essere mangiata solo se l’animale sia stato macellato in modo da eliminare, nei limiti del possibile, ogni traccia di sangue. Quanto agli animali acquatici l’ebreo può mangiare solo quelli forniti di squame e di pinne; quindi niente crostacei e molluschi.

L’ebreo deve sempre stare a capo coperto, in tutti i momenti e in tutti i luoghi per rispetto verso Dio. Alcuni si limitano allo "zucchetto" ma in tempi moderni non tutti gli ebrei credenti lo portano in permanenza; altri, più rigorosi, portano un cappello nero a forma di bombetta.

Accanto a questi precetti ne esistono numerosissimi altri, ben 613, che sia per l’evoluzione dei tempi che per l’impossibilità pratica non sono osservati in maniera tassativa.

 

La religione: la Torah

Ebrei e cristiani hanno in comune quello che i cristiani chiamano Antico Testamento ma che gli ebrei chiamano Bibbia (per i cristiani la Bibbia è costituita dall’Antico e dal Nuovo Testamento).

Per sommi capi la Bibbia ebraica è costituita da una serie di libri a carattere narrativo e da una serie di libri a contenuto morale e religioso; in totale i libri sono 24.

La Torah è il titolo con cui gli ebrei racchiudono i primi cinque libri dell'antico testamento e che rappresentano la parte " rivelata ".

Cosa vuol dire? Dopo molti secoli di trasmissione orale sono state trascritte quelle indicazioni che gli ebrei avevano avuto nel deserto da Mosé: quei comandamenti che anche il cattolicesimo riconosce.

La Torah, quindi, contiene tutte queste indicazioni ed anche una parte di storia del popolo di Israele dalla creazione in poi; contiene un insieme di leggi, di regole che gli ebrei devono seguire e che vanno dalla genesi (principio) in poi.

Per gli ebrei la Torah è la sacra scrittura; Torah in ebraico vuol dire dottrina, insegnamento.

La Torah è letto in Sinagoga tre volte la settimana in aggiunta alle preghiere; nel giro di un anno si leggono tutti e cinque i libri che compongono la Torah e c'è un giorno che si chiama "simchat torah" - che vuol dire la gioia della Torah - che cade nel periodo delle feste autunnali dopo il capodanno (rosh hashanna) e il sukkoth (la festa della capanna: una costruzione in cui il tetto deve essere fatto di materiali vegetali come rami, foglie, cannucciati in modo da poter intravedere il cielo senza soluzione di continuità tra esso e la terra; simbolicamente non deve esserci interruzione così come avviene per la lettura dei libri della Torah): in questo giorno si finiscono di leggere le ultime parole del quinto libro della Torah e si ricomincia, nello stesso giorno, a leggere il primo libro proprio perché, simbolicamente, non ci deve essere interruzione in questa lettura.

Da migliaia di anni ogni ebreo ha l’obbligo di leggere la Torah; ogni ebreo ha l'obbligo di studiare la Torah; è un obbligo che nasce come obbligo religioso e diventa, poi obbligo sociale; ciò da migliaia di anni in tutte le comunità e in qualunque posto del mondo. La comunità si deve far carico, socialmente, di aiutare le famiglie perché lascino il testo ai loro figli per lo studio.

Il Dio degli ebrei è lo stesso Dio dei cristiani: è quello stesso Dio che ha creato il mondo e che, dopo aver condotto i fedeli attraverso le acque del Mar Rosso e dopo averli guidati nelle terre del Sinai, si è rivelato a Mosè dettandogli i comandamenti; un unico Dio, onnipotente e onnisciente, che, però, non si è incarnato nel figlio e non si è mai manifestato sotto forma di sembianze umane.

Di ciò vi è testimonianza all’interno delle Sinagoghe che si presentano spoglie se confrontate con le chiese cristiane; prive di statue, quadri, affreschi e dove compaiono solo decorazioni murarie, stoffe ricamate, candelabri.

In Sinagoga sono solo gli uomini che leggono la Torah e sono separati dalle donne; ma la separazione tra gli uomini e le donne non è un comandamento, è una decisione presa dai rabbini quando le comunità ebraiche hanno dovuto convivere con altre società (la greca, la romana) e da allora si è sempre continuato così.

La Torah è scritta a mano su pergamena che si arrotola su due bastoni. La lingua è l'ebraico di due mila anni fa.

L'ebraico è tornato ad essere una lingua parlata solo alla fine del XIX secolo quando gli ebrei - tornati nella loro Palestina, la "terra dei padri" - decisero di parlare di nuovo in ebraico, usando quello stesso vocabolario delle preghiere. Nel giro di una decina d’anni la lingua tornava ad essere una lingua viva e, in questi ultimi cento anni, la lingua è cambiata più di quanto non lo fosse nei duemila anni in cui è rimasta solo la lingua delle preghiere.

Quando i rotoli non sono in lettura devono essere sempre ricoperti, protetti da mantelli; devono essere aperti nel giorno giusto dalle persone giuste; sono riposti solo nel santuario della sinagoga.

In ebraico mantello si dice "Meil"; "Keter" la corona; "Rimonim" i puntali; rimonim vuol dire melograno perché a forma di melograno erano i puntali del tempio di Gerusalemme.

Perché il melograno? Il melograno in ebraico è un simbolo di fratellanza, d’abbondanza: è un simbolo molto positivo, è un simbolo di prosperità.

La religione ebraica non osserva i sacramenti però il matrimonio è un contratto che gli sposi firmano e la cui forma risale a duemila anni e più d’esistenza come testo fondamentale.

Soprattutto in passato, nel matrimonio ebraico, la donna poteva essere ripudiata se non aveva figli perché era sottinteso che la mancanza di figli fosse un’anomalia esclusiva della donna e siccome nel matrimonio ebraico è sancito l'obbligo d’avere tanti figli se questi non arrivano, il marito può ripudiare la moglie.

Ma nell'ebraismo c'è una clausola di tutela che protegge la donna ed è una clausola vecchia di migliaia d’anni; la donna ripudiata deve avere o riavere la sua dote quindi le donne ripudiate diventavano, il più delle volte, molto appetibili perché ricche. Risposandosi, poi, avveniva anche che mettevano al mondo quei figli che non avevano avuto nel primo matrimonio.

Diana Onni

 

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